Femminicidio e la cultura che subordina le donne agli uomini
di Nadia Somma
I primi due giorni di febbraio sono stati scossi dall‘uccisione di Luana e Marinella e dall’aggressione feroce e brutale di Carla cosparsa
di alcol e data alle fiamme dal suo compagno. Atti di ordinaria violenza
maschile accaduti ad otto ore di distanza l’uno dall’altro.
Dall’inizio dell’anno c’erano già state altre violenze
contro le donne, ricordate ieri da Michela Murgia, che con la usuale cadenza di
una ogni tre giorni, sono entrate nella statistica annuale sul femminicidio.
Le storie di Carla, incinta all’ottavo mese di gravidanza, di sua figlia
Giulia Pia nata col taglio cesareo, hanno spezzato l’apatia a e hanno
squarciato quel velo di torpore e di indifferenza che rende accettabile,
collettivamente, l’ordinario esercizio di violenza maschile. Una violenza
che viene narrata e rimossa nello stesso tempo, quando diventa
elemento di consumo nella cronaca nera, nei programmi morbosi dove il
tema del femminicidio si consuma e si getta via con i peggiori stereotipi e le trite
banalità.
Raptus, delitto passionale, amore non corrisposto
accompagnano la giustificazione collettiva della violenza maschile che “capita”
a qualche donna che ha osato compiere una sfida. Camminando per
strada la notte, andando in discoteca, ubriacandosi, appagando la propria
sessualità, tradendo, scegliendo di separarsi da un marito che era
diventato insopportabile a causa delle violenze o semplicemente perché le
aveva stancate. Così le donne sfidano gli uomini e il destino
e “se la cercano“. Vivendo.
Nei prossimi mesi leggeremo ancora di uomini che
uccidono o feriscono, delle loro fughe vigliacche col
suicidio o su auto in corsa, lontano dai luoghi dei loro crimini. E
dopo i loro arresti, leggeremo ancora le meschine giustificazioni di stupri,
botte e uccisioni e le loro difese costruite sulla diffamazione della
vittima e ci toccherà ancora ascoltare commenti inadeguati alla gravità
delle azioni commesse.
Paolo Pietropaolo, quello che a 40 anni sulla sua pagina Fb, si
fregiava di essere un disadattato, dopo aver dato fuoco alla compagna incinta,
ha detto di aver fatto una cazzata come altri autori di femminicidio, che lo
hanno preceduto, hanno fatto in passato.
Se vogliamo fare collettivamente un lavoro
di coscienza dobbiamo smettere di aderire alla cultura che subordina le donne
agli uomini e trovare altre chiavi di lettura dei femminicidi. Dobbiamo
vedere con chiarezza il cattivo nutrimento dell’anima di uomini che
uccidono, feriscono, stuprano o umiliano, e saper analizzare e cambiare
il linguaggio che costruisce relazioni distorte con
le donne. Quali miti o narrazioni sull’invenzione della virilità dobbiamo
combattere? Quali i riferimenti culturali che rendono questi uomini
così desolatamente uguali uno all’altro: privi di ogni empatia e di
consapevolezza per il dolore arrecato alle loro compagne, rancorosi per
una frustrazione tanto profonda e impotente quanto assetata di una onnipotenza
che li spinge sempre a distruggere, convinti di avere il diritto a
una dedizione femminile eterna e incondizionata e capaci di dire dopo un
massacro per non averla ottenuta, di aver fatto (solo) una cazzata.
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
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